GdP 15 dicembre 2013
AL VOTO PER DECRETO?
MA NEMMENO MUSSOLINI...
PRIMA SI CAMBI LA CARTA
di Aldo A. Mola
Troppe elezioni, come il fumo, possono far male. Dal 1946, tra politiche, amministrative ed europee, oltre ai referendum, gl’italiani manco ricordano quante volte siano stati chiamati alle urne. Dunque, votare troppo può generare assuefazione e indifferenza, soprattutto quando il voto è disatteso dagli “eletti”, sia pure per cause di forza maggiore (com’è il caso delle “larghe” e ora “piccole intese”: riedizione dei malaticci governi Andreotti del 1976-79). Non votare, però, può fare peggio, molto peggio. Le urne sono come la valvola di sfogo di una pentola a pressione che, senza qualche sbuffo, è condannata a esplodere. Lo si voglia o no, il voto è incombente dal 4 dicembre, quando la Corte Costituzionale ha invalidato due cardini della legge elettorale usata dal 2006. Troppi incitarono la Corte a lavarsi le mani del ricorso Bozzi o a rinviare la sentenza alle calende greche. E troppi ora fingono che la Corte non abbia detto nulla di giuridicamente vincolante e di politicamente rilevante. Niente affatto. Anche se sul piano formale tempus regit actum (versione nobile del “chi ha avuto ha avuto…”: concetto contrastante con l’esistenza stessa della Corte, istituita proprio contro l’accomodante “scurdammoce ’o passato”), questo Parlamento è comunque delegittimato nell’opinione pubblica, che vale più del “parere” dei costituzionalisti. Perciò tornare presto alle urne è davvero il male minore. Trastullarsi nell’attesa che la Corte depositi le motivazioni della sentenza significa discutere del sesso degli angeli mentre Maometto II entra in Costantinopoli. L’adeguamento della norma alla realtà, della forma alla sostanza non consente indugi, perché i cittadini non sono più quelli dei tempi andati, rassegnati a subire. Oggi sono informati sui costi e sui benefici del loro rapporto con lo Stato e con le amministrazioni periferiche. Perciò esigono risposte chiare sull’impiego dell’immensa quantità di denaro drenata dal sistema fiscale al quale sono sottoposti. Il governo centrale e quelli locali tentano di addossare il collasso interno alle istituzioni europee; però i cittadini non marceranno mai su Bruxelles, né su fantomatici “poteri forti”, ma sui Palazzi a portata di mano. Sanno bene, del resto, che è stato il Parlamento ad accettare i diktat dell’Unione Europea (“Ce lo chiede l’Europa” fu il ritornello esasperante di Monti Mario, inventato senatore a vita e presidente del consiglio da Giorgio Napolitano).
Votare presto - e bene - può dunque essere il male minore. Lo si vide all’origine della monarchia rappresentativa, in quel regno di Sardegna che dopo il 1848 rimase l’unico Stato costituzionale d’Italia (lo ricordiamo a beneficio dei nostalgici dei Borbone, di austriacanti e papalini). Tra il 1848 e il 1860 vi si contarono sette legislature. In piena guerra e poi col nemico in casa, gli elettori votarono il 27 aprile 1848 e tre volte nel 1849: il 22 gennaio, il 15 luglio e il 9 dicembre. A riportarli alla realtà fu il Proclama di Vittorio Emanuele II (scritto dal primo ministro, Massimo d’Azeglio), che esortò i cittadini a eleggere una Camera con la testa sul collo. Il re l’ebbe vinta perché era credibile. Persa la battaglia a Novara, suo padre aveva abdicato, era andato esule a Oporto e ci era morto, cinquantunenne, di crepacuore. Vittorio Emanuele II accettò una pace severa, ma tenne in vita lo Statuto, il Parlamento, la libertà di stampa, fondamento della riscossa liberalnazionale. Però, per voltar pagina con la guerra occorreva una Camera ragionevole, che approvasse il trattato di pace e imboccasse la via della ricostruzione. Di lì l’appello agli elettori, che alle urne per la quarta volta in un anno e mezzo si schierarono con il re, per lo Stato. Quando occorre, si vota e si rivota, perché il voto è meglio dell’autoritarismo, molto meglio del regime (come si è veduto in Grecia). Il Paese ha diritto di dire la sua. Come accadde nel turbine di fine Ottocento, quando gli italiani votarono cinque volte in dieci anni (1890, 1892, 1895, 1897, 1900) per trovare finalmente stabilità nel quindicennio più prospero della storia d’Italia: l’età giolittiana.
Ora l’Italia è a un trivio. Una prima strada è l’immobilità delle istituzioni, sentite lontane dai cittadini, anche se non scendono in piazza. All’opposto, qualcuno propone che il governo vari la riforma elettorale per decreto-legge, lanciando un guanto di sfida al Parlamento. O scherza o non sa quel che si dice. Neppure Mussolini riformò le leggi elettorali per decreto. Conosceva per esperienza la dialettica tra le urne e la piazza. Nel novembre 1919, in lista a Milano con Arturo Toscanini e il futurista Filippo Tommaso Marinetti, prese 5.000 voti. Rimase fuori dalla Camera. Tre anni dopo divenne capo del governo, votato dal Parlamento a stragrande maggioranza. Le leggi elettorali Acerbo-Giolitti (1923), Rocco (1928) e le seguenti (1934, 1939) furono sempre approvate dalle Camere. I disegni di legge governativi sono aria fritta senza una maggioranza compatta (bel altra da quella che oggi sostiene Enrico Letta). I decreti legge, peggio ancora (come quest’ultimo sul finanziamento dei partiti), impegnano la firma del presidente della Repubblica e vanno approvati entro 60 giorni o decadono. Ora, coinvolgere in un disegno o decreto in materia controversa un Capo dello Stato che in otto anni ha inviato un solo (e per ora inascoltato) messaggio alle Camere, significherebbe compromettere il supremo magistrato dello Stato nelle sorti periclitanti del governo più di quanto già lo sia, con contraccolpi prevedibilmente devastanti.
La terza via è la riforma della Costituzione, obbligatoriamente preliminare a qualsivoglia innovazione in materia elettorale. Se non si mette mano alla Carta, qualunque nuova legge sarà solo un cerotto sulla piaga. Prolungherà l’agonia ma non salverà la repubblica. Non si tratta di ridurre il numero dei parlamentari, ma i loro privilegi e di farli lavorare meglio e di più nelle sedi deputate; occorre abolire il bicameralismo ripetitivo vigente senza imboccare il precipizio della Camera unica: foriera di catastrofi, come la Convenzione francese del 1792, l’Assemblea dei Soviet e tutti i regimi monocamerali, che furono e sono sempre sgabello di dittature e di terrorismo politico; e mettere mano una volta per tutte alla riforma dell’ordine giudiziario.
La terza strada è sicuramente impervia. Le altre due comunque portano diritti al caos. Chi volle la repubblica, la sapeva debole: il 2-3 giugno 1946 essa ottenne 12.700.00 voti su 28.0000.000 di aventi diritto, il 42%. Nacque minoritaria. Perciò i costituenti la blindarono con gli articoli 138 e 139. Volevano renderla salda. Invece la intirizzirono. La condannarono alla paralisi. Ora se ne pagano le conseguenze, perché la storia fece e fa il suo corso. Sempre più impetuoso ma chiuso in argini sempre più stretti, esso ora rischia di romperli e di dilagare chissà come e dove. Lo stallo della riforma della Carta non fa presagire nulla di buono. Perciò il ritorno alle urne potrebbe far da valvola di sfogo del malcontento crescente. Forse non risolve, ma è un antidoto a soluzioni peggiori. Tanti ricordano che alla minaccia di Pietro Nenni, “La repubblica o il caos”, molti risposero che avremmo avuto “la repubblica e il caos”. Ora ci siamo…
Aldo A. Mola
comunicato 0186/2013 indice news
GDP SANTA ALLEANZA 2013 1 settembre
SANTA ALLEANZA: INTERVENTO, NON INTERVENTO, ANARCHIA INTENAZIONALE
di Aldo A. Mola
Nel 1815, per voltar pagina con lo sconquasso delle guerre franco-napoleoniche (1792-1815) e fondare il concerto europeo, le potenze vincitrici (Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia) associarono il vinto, la Francia. Ci vollero tre Trattati nel 1814 e i lunghi mesi del Congresso di Vienna, dal quale scaturì la Santa Alleanza, che in vertici successivi decise l’intervento militare per ristabilire l’ordine, cioè annientare i liberali che chiedevano monarchie costituzionali al posto di regimi assoluti. L’Austria mise in riga i liberali italiani. La Francia fece altrettanto con quelli di Spagna. La Russia ebbe mani libere per far regnare l’ordine a Varsavia. Nell’estate 1830 Luigi Filippo di Borbone-Orléans, elevato al trono da una rivoluzione senza sangue, e la Gran Bretagna decisero che i Belgi potevano staccarsi dai Paesi Bassi e costituirsi in regno indipendente sotto tutela internazionale. La Santa Alleanza rimase al palo. Allora i liberali si mossero, specie in Italia, confidando nel “non intervento”, ma la Francia lasciò campo libero alla repressione asburgica e si limitò ad occupare Ancona.
A parte l’indipendenza della Grecia e la formazione del regno d’Italia, frutto di guerre di bassa intensità, malgrado tensioni e conflitti periferici (dai quali sorsero Romania, Bulgaria, Montenegro), in Europa la pace resse sino al 1914. Lo scossone della guerra franco-germanica del 1870-71 indusse anzi a scaricare la gara per l’egemonia nella conquista degli spazi coloniali extraeuropei. Dopo la Grande Guerra per spegnere subito nuovi possibili incendi e arginare le rivoluzioni venne istituite la Società delle Nazioni, che funzionò poco e male. Non decise alcun intervento significativo, non fermò le guerre e nel 1935 deliberò le sanzioni economiche ai danni dell’Italia quando Roma invase l’Etiopia, membro della Società stessa. Le Nazioni Unite dal 1945 avocarono il potere di interventi militari e ne attuarono molti. Ma altre missioni di pace furono decisi da soggetti diversi, come la Nato, strumento militare dell’Alleanza Atlantica, e dal Patto di Varsavia (in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia). Ora si registra uno stallo, sia dell’ONU, sia di coalizioni multilaterali. Nella Comunità internazionale dilaga una pericolosa anarchia.
Torino, prima capitale d’Italia, ospita il XXXIX Congresso della Commissione Internazionale di Storia Militare per approfondire il rapporto tra “governo mondiale” e “interventi multilaterali”. Il tema è di scottante attualità, mentre alcuni governi si affannano a procacciare base legale alla ritorsione (a quale titolo?) contro al-Assad (su quali certezze e con quali rischi?). Ma per gli storici, esso ha millenni di precedenti. La riflessione sulla politica vera, cioè sul rapporto tra la diplomazia e le armi, come insegnò Clausewitz, vi si snoda infatti dalle Guerre del Peloponneso alla spedizione degli aghlabidi in Sicilia (827-909), dalla guerra di successione sul trono di Vienna (1741 -48) a una quantità fantasmagorica di “episodi” . Paese ospite dell’importante Congresso scientifico, realizzato con l’impegno degli Uffici Storici della Difesa (col. Matteo Paesano), dell’Esercito (col. Antonino Zarcone), della Marina ( C. V. Francesco Loriga) e dei Carabinieri (ten. Col. Flavio Carbone), l’Italia partecipa con docenti prestigiosi, quali Virgilio Ilari, Alessandro Barbero, Pietro Crociani e molti giovani ricercatori, alcuni dei quali già affermati, come Federica Saini Fasanotti, finalista del Premio Acqui Storia e autrice di un’ eccellente opera edita dell’Ufficio Storico SME sulle Operazioni militari italiane in Libia (1922-1931).
Dalla rassegna di Torino emerge che ogni Paese ha vissuto successi ed errori. La saggistica italiana ha invece solitamente enfatizzato soprattutto le sconfitte (Novara, Lissa, Adua, Caporetto, 8 settembre…), isolandole dal contesto e oscurando le vittorie, con una lettura negativa dello “strumento militare”. E’ quanto emerge, per esempio, da Generali di Domenico Quirico (che auspichiamo torni presto libero agli studi) e da molte opere di Nicola Labanca e altri seminatori di cupo pessimismo, dimentichi che dall’Unità le Forze Armate sono state con la pubblica istruzione la vera fucina della Nuova Italia Nuova e concorsero a liberare i cittadini dalla sottocultura fondata sulla superstizione, come ha documentato Oreste Bovio nella poderosa Storia dell’esercito italiano, ora riproposto dall’Ufficio Storico SME.
Quel passato fa aprire gli occhi sul presente. La Camera inglese ha rifiutato l’attacco militare alla Siria. Ancora una volta l’Inghilterra impartisce una lezione. E’ una monarchia costituzionale. La più antica d’Europa. Alle spalle ha la Magna Carta e l’habeas corpus, due pilastri della civiltà liberale. Da secoli il governo inglese non può decidere spese senza l’approvazione dei contribuenti e i cittadini non possono essere arrestati senza un’imputazione formale.
Si discuterà a lungo su questa svolta. Ci si domanderà se i deputati inglesi abbiano deciso solo per motivi giuridici (la mancanza di prove sicure dell’uso di armi chimiche da parte di el-Assad) o anche per interessi (i complessi rapporti economici tra Londra e il mondo arabo-islamico). Quel che conta è che il Parlamento ha rivendicato la propria sovranità sulla politica estera: un caposaldo della sua lunga fortuna degli inglesi, esaminata da Ottavio Bariè nei saggi raccolti da Massimo de Leonardis in Dall’Impero britannico all’Impero americano (Le Lettere), mentre ora l’egemonia degli USA risulta appannata, lontana dal ruolo di guida sicura dell’Occidente, come lo stesso Bariè osserva in Dalla guerra fredda alla grande crisi (il Mulino), finalista all’Acqui Storia. Proprio il declino dell’egemonia di Washington apre spazi alle frenesie di Stati di seconda e terza fila, smaniosi di protagonismo, come la Francia di Sarkozy e di Hollande.
Anche in Italia dalla Grande Guerra la centralità del governo politico della forza quale pilastro della democrazia fu il terreno di scontro fra due concezioni dello Stato. Di una fu interprete maturo Giovanni Giolitti che dall’agosto 1917 chiese a viso aperto di trasferire dalla Corona al Parlamento l’approvazione dei trattati internazionali e soprattutto il potere di dichiarare guerra. Non l’ottenne. Fu così che nel 1940 l’Italia venne buttata una seconda volta nella fornace di una guerra generale dall’andamento poi rovinoso, senza che alcun Istituto rappresentativo fermasse Mussolini: una catastrofe di cui paghiamo e pagheremo le conseguenze. Quei precedenti ci ricordano che dal 1848 al 1946 l’Italia fu monarchia costituzionale con poteri asimmetrici; dal 1946 scelse di essere una repubblica parlamentare, ma in troppi casi il Parlamento ratifica decisioni delicate assunte altrove. La verifica del corretto equilibrio tra i poteri avviene nelle ore supreme, quando ci si deve domandare se il Paese, sul quale ricadono le decisioni dell’esecutivo, concordi davvero con le decisioni del governo e sia disposto ad accollarsene il peso. Fu la domanda che si pose il ministro della Guerra Domenico Grandi nell’ottobre 1914: un dubbio “giolittiano”. Venne sostituito. Forse una conferenza di pace dell’ultimo minuto, un maggior sforzo della diplomazia avrebbe fermato la concatenazione di ultimatum e di dichiarazioni di guerra: che si sa come iniziano, mai come finiscano. Ma ormai la Santa Alleanza era solo un ricordo. Per di più esageratamente odioso (*).
Aldo A. Mola
(*) Il XXXIX Congresso della Commissione Internazionale di Storia Militare si svolge al Centro Congressi di Torino dal 2 al 6 settembre. Alle 17 di oggi (domenica 1 settembre) alla Biblioteca Universitaria è inaugurata la mostra “I volti dei Militari Italiani”.