GdP 29-12-013
COLPI DI GOVERNO/1
LE PROVINCE ELETTIVE
CAPISALDI DI DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
di Aldo A. Mola
Benché ormai in agonia, il governo minoritario presieduto da Letta Enrico tenta di farsi regime: azzera l’elezione diretta degli amministratori provinciali e, mentre nomina decine di nuovi prefetti, cancella le Province stesse, Enti garantiti dall’art. 114 della Carta. Come la Voce sedente sul Trono Letta proclama: “Ecco, faccio nuove tutte le cose” (Apocalisse, 21.5). Eppure questo Parlamento ha i giorni contati: la Corte Costituzionale, infatti, dovrà pur decidersi a depositare le motivazioni della sentenza emessa il 4 dicembre scorso sull’incostituzionalità della legge che l’ha partorito. Se non prima, a quel punto molti nodi verranno al pettine. La Camera risulterà delegittimata. Il corto circuito istituzionale avrà conseguenze imprevedibili. Ma anche senza attendere quel giorno, il governo non ha l’autorevolezza politica per attentare alla storia d’Italia. Non rappresenta i sentimenti profondi degli italiani. Alle votazioni del 25 febbraio un quarto dei cittadini disertò le urne, un altro quarto (M5S e Lega) dette prova di buona volontà portando in Aula il malcontento contro il “sistema” altrimenti destinato a esplodere nelle piazze. A dicembre i rappresentanti di un 20% dei voti validi (Forza Italia) hanno preso atto dell’odio inestinguibile di Partito democratico, SEL e “montuti” nei confronti del suo leader storico, Silvio Berlusconi e, coerentemente, si sono dissociati dall'esecutivo. L’attuale, dunque, è un governo di minoranza, sorretto dalla stampella del presidente della repubblica, che gli ha regalato quattro senatori vitalizi, evocati come spiritelli dalla lampada di Aladino in situazioni d’emergenza, cioè per votare la fiducia al governo, benché da tempo anche osservatori pacati, come Sergio Romano, ripetano che per decoro i senatori vitalizi, “illustrazioni della Patria” non di una fazione, dovrebbero astenersi da voti politici.
Eppure, malgrado la sua pochezza, il governo Letta “tira diritto”. Come quello di Mussolini che nel 1922 a capo del governo ascese a soli 39 anni e persino senza laurea, quando quel titolo ancora valeva qualcosa. Esso mira a espropriare i cittadini dal sacrosanto diritto di eleggere i propri amministratori. Lo fa con un colpo mancino, una sorta di prova generale per future manomissioni dei diritti fondamentali e non negoziabili di libertà. Non potendo abolire per decreto le Province (tutelate dalla Costituzione), azzera l’elettività dei loro Consigli e così svilisce il rapporto cittadini-istituzioni. Cinquantadue amministrazioni provinciali, i cui Consigli vanno eletti nella primavera 2014, verrebbero commissariate, mentre venti già lo sono. Il ministro agli Affari regionali Graziano Delrio (ex partito popolare, ora partito democratico: un cattocomunista, insomma) difende questa decisione con due argomenti concatenati: bisogna risparmiare e per farlo occorre escludere “la politica” dalle amministrazioni provinciali. Le funzioni delle attuali Province verrebbero trasferite a città metropolitane (ancora tutte da definire: diverranno altrettanti “capitali” come la costosissima Roma?) e a consessi di sindaci (dal profilo altrettanto fumoso). Con gli stessi argomenti - e a maggior ragione, veduta la realtà – si potrebbe/dovrebbe abolire l’elettività delle Camere, anzi le Camere stesse, e sostituirle con Consigli (soviet) diretti da Commissari del Popolo (cari agli stalinisti camuffati e mai pentiti) o almeno eliminare il Senato. Con una Camera sola si risparmia. Se non si vota, ancora di più. E così si dovrebbe fare delle amministrazioni comunali e dei sindaci, da sostituire, magari, con “podestà forestieri” (come spropositò Monti Mario sin dall’agosto 2011, prima che Napolitano Giorgio lo creasse senatore a vita e “commissario” al governo dell'Italia perché “ce lo chiedeva l’Europa”), o con “imprese di pulizia” a contratto triennale. In questa visione “delriante” della democrazia rappresentativa sopravvivrebbero solo il governo centrale (di larghe o striminzite intese e comunque non più nazionale, perché la Nazione è una nebbiolina svaporata) e quelli regionali (che hanno dato e danno triste spettacolo, come preveduto da quanti invano si opposero al loro varo, veduti i disastri causati da quelle a statuto speciale, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta).
Gli argomenti del governo Letta-Delrio sono risibili, anzitutto perché il ventilato risparmio è tutto da dimostrare e poi perché, fino a prova contraria, i sindaci che dovrebbero formare i consessi sostitutivi dei consigli provinciali elettivi, retti da Commissari di nomina governativa (e quindi politici) sono politici anch’essi in questo sfortunato Paese ove sono politiche anche le foglie che cadono su marciapiedi e sui parcheggi lottizzati e divisi anche per generi: una striscia per maschi, una per femmine, una per il terzo genere, e via via per gli alti, i bassi, i colorati, i pallidi, i fulvi, i mori, i ricciuti, i trinariciuti…
L’aspetto più allarmante e inaccettabile della “legge Delrio” (per ora approvata solo dalla Camera Bassa e che confidiamo venga bocciata dal Senato) sta nel tentativo di cancellare con legge ordinaria Enti previsti dalla Costituzione e il diritto di voto delle loro amministrazioni. E’ un precedente gravissimo. E’ esattamente quanto fece dal 1925-1926 il governo presieduto da Benito Mussolini. Rimasto privo dell’appoggio di liberali, popolari, demosociali e democratici, che lo avevano sorretto dal 1922 al 1924 e ancora molto forti in Comuni e Province, il “duce” sostituì i consigli comunali e provinciali elettivi con podestà e rettori (poi prèsidi). Quelle leggi non furono imposte da “un uomo, un uomo solo”, da un “dittatore”: esse furono approvate dal Parlamento, parte succubo, parte latitante (l’ “Aventino), parte stolto. Al regime il fascismo non arrivò con un colpo di stato: lo costruì un voto dopo l’altro in Parlamento, legge su legge. D’altronde che i parlamentari non sappiano quel che si fanno è stato provato non solo dalle Camere del 1922-1943 ma anche da quanti un paio d'anni orsono votarono la legge Alfano-Severino che introdusse la sciagurata retroattività delle sentenze penali sulla eleggibilità dei parlamentari in carica: una decisione demenziale in un Paese che ha tanto di Corte Costituzionale, a conferma che le leggi non sono “il Verbo divino”.
Va detto chiaro che non vi è alcun valido motivo per abolire le Province (Enti che affondano radici nella storia millenaria delle Cento città descritta da Gustavo Strafforello in “La Patria”, il Bel Paese dell’abate Antonio Stoppani: semmai occorre riportarle al numero e alle funzioni originarie) né, meno ancora, l’elettività dei loro presidenti e consessi: che generalmente funzionano bene e senza disordini amministrativi (anzi!). Aggiungiamo che chi controfirmasse una legge che, per via traversa, attenta alla Costituzione dovrà risponderne: e non solo dinanzi alla storia.
La partita è aperta e sarà decisiva in un anno che non nasce sotto una buona stella. Il corto circuito istituzionale vedrà contrapposti da un canto il “potere”, dall’altro i cittadini che lo sentono lontanissimo. Senza alcun arbitro autorevole. Così si scoprirà che una vera classe dirigente (l’aristocrazia, gli “ordini”…), fondata sull'armonia tra gerarchia, meritocrazia ed elezione alle cariche (basi di democrazia stabile, come prova l’elezione dell’unico ed efficiente monarca assoluto, il Papa), richiede secoli di educazione all'esercizio delle responsabilità: l'abito formale e sostanziale indossato da quanti costruirono l’Italia e ne fecero un Paese grande, civile, rispettato nel mondo. Ma poi, come scrive l’Evangelista, “gli uomini hanno amato più le Tenebre che la Luce” (Giovanni, 4,19).
Aldo A. Mola
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