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comunicato 086/2013   indice news


SAVOIA

TRE SECOLI DI CORONA REGALE

L’eredità di un metodo politico            (*)


di Aldo A. Mola  


Tre secoli fa, con la pace di Utrecht (1713), Vittorio Amedeo II di Savoia venne riconosciuto re di Sicilia. Con settecento anni di storia alle spalle, cresciuti da conti a duchi, guerra dopo guerra  i Savoia  entrarono definitivamente nel grande gioco  politico-diplomatico-militare di un’Europa che all’epoca andava da Vienna alla Patagonia, dalla penisola baltica alla Sicilia, alle Filippine…Nello stemma della Casa Savoia compaiono anche le insegne di re di Cipro e di Gerusalemme: non per vanità ma come esplicitazione di una filosofia della storia, del metodo di “fare politica”. Se non si pensa in grande non si conseguono neppure risultati minimi, come ricorda l’araldista militare generale Oreste Bovio.

  Premessa al passaggio da duca di Savoia a re di Sicilia (poco dopo forzatamente mutata con la Sardegna) fu la vittoria di Torino del settembre 1706 contro l’assedio  dell’armata di Luigi XIV.  Vittorio Amedeo, soccorso dal cugino Eugenio di Soissons, (“Achille sabaudo al servizio degli Asburgo” come sintetizzano Wolfgang Oppenheimer e Vittorio G. Cardinali in La straordinaria avventura del Principe Eugenio, Mursia), vinse perché contava sulla fedeltà dei regnicoli, dalla Valle d’Aosta a Nizza, tutti uniti contro la prevaricante occupazione straniera.

Il riconoscimento del rango di re venne ribadito nel tempo e costituì  il fondamento storico formale e sostanziale del “patto” tra sovrano e popoli.

   L’acquisizione del 1713 fu anche la base concettuale remota ma durevole e solida delle “annessioni” del 1848-1870. Accecata  dall’esaltazione di cospirazioni, insurrezioni e del volontariato garibaldino (realtà importanti ma non determinanti) , la storiografia tardò (e ancora tarda) a cogliere la centralità del 1713 per la nascita  dello Stato d’Italia,  e tuttora  lo declassa a episodio di conflitti dinastici. Il rango regale del 1713 va invece veduto per ciò che fu: primo esperimento dell’esercizio della sovranità  da parte di un Re capace di conciliare le legittime aspirazioni della Casa e dei suoi popoli con la pax europea.

  Vittorio Amedeo II risultò l’unico sovrano in Italia a unire lotta per l’indipendenza e visione  europea. Non per caso non furono né la Lombardia (suddita di tanti signori), né la Serenissima Venezia, non la Superba Genova, né la Toscana medicea e poi asburgica, non Napoli (che tra il 1713 e il 1734  cambiò tre sovrani in vent’anni), né, meno ancora, la Roma dei Papi, a progettare poi l’unificazione degli italiani in uno Stato indipendente e libero di  farsi accentrato o federale. 

   La dirigenza sabauda sapeva  da sempre che il crinale alpino occidentale è la cerniera d’Europa. Da quell’intelligenza scaturirono i giganteschi valichi  stradali e ferroviari realizzati da Napoleone il Grande e poi da Camillo Cavour.  Però proprio l’unificazione del 1861 fermò la realizzazione di alcune grandi opere. Fu il caso della ferrovia da Torino alla Costa Azzurra, riduttivamente detta Cuneo-Nizza: ripiegamento da una visione geniale a un’ottica localistica. I massimi ingegneri ferroviari dell’Ottocento sapevano bene, invece, che i progetti sono  più credibili  se respirano largo. L’ingegnere Giacomo Cora propose la linea Milano-Saluzzo- Marsiglia  passante per la impervia Valle Maira, alternativa alla Cuneo-Nizza, osteggiata da Giuseppe Biancheri che voleva dirottare tutto il traffico a beneficio della “sua” costiera ligure. Nel 1915 Marco Cassin, ebreo, deputato giolittiano, presidente della Camera di Commercio di Cuneo, propose di esigere subito dalla  Francia la rettifica del confine alpino e il completamento della linea ferroviaria, quale attestazione della gratitudine di Parigi per l’intervento dell’Italia contro gl’Imperi Centrali. Nel 1940 il podestà di Cuneo, Michele Olivero, tracciò l’autostrada Torino-Nizza: un rettilineo di cento chilometri, senza tante chiacchiere. I mezzi tecnici per farla già c’erano. Mancò lo Spirito.  Poi si spense. Più si  ramificarono  “istituzioni europeistiche”, come rampicanti parassitici su antiche mura ed archi, più il collegamento Piemonte-Europa si appannò.  Adesso dilaga la miopia di chi antepone arcaici sentieri alla realizzazione  di opere vitali per i popoli alpini.  Se davvero si vuole rilanciare la Cuneo-Nizza  bisogna proporla come Milano-Barcellona.

   Tornare a Vittorio Amedeo II significa recuperare la capacità di pensare  in europeo, e concepire Torino non come scenario per corse a piedi o in bicicletta ma quale volano di civiltà. Elevata da borgo a capitale del Ducato con Emanuele Filiberto e capitale di un regno dal 1713, nel 1864 Torino passò la mano a Firenze (chi se lo ricorda centocinquant’anni dopo?) e poi a Roma (20 settembre 1870), grazie alla stoltezza di Napoleone III e alla brutale forza della Prussia di Bismarck, non per valore di garibaldini né per occulte trame di massoni. Lì il Piemonte  riversò generosamente uomini e idee, sino all’esaurimento delle sue risorse. Oggi è una terra “in cerca”. Gli farà bene riflettere sulla grande svolta del 1713 (*).

Aldo  A. Mola


(*)  Il 7 e 8 giugno al Maschio della Cittadella  di Torino  si svolge il convegno “Utrecht 1713: i Trattati che aprirono le porte d’Italia ai Savoia” organizzato dalla Associazione Torino 1706, animata da Gustavo Mola di Nomaglio, in collaborazione con il Centro Studi Piemontesi e altri enti e sodalizi: quasi cinquanta promettenti relazioni.  


 

Il GdP 02-06-013