comunicato 023/2013 indice news
1842. Giovanni Federico Maria Cosma Damiano Alberto Giolitti, detto in fanciullezza Federico, poi Giovanni (Gioanin in piemontese), ma sino alla laurea uso a firmarsi Giovanni Federico, nasce a Mondovì (Cuneo) il 27 ottobre da Giovenale (San Damiano Macra, Cuneo, 1803 - Mondovì, CN, 1843) e da Enrichetta Plochiù (Cavour, 1808 - Torino, 1867).
Suo padre e suo nonno, Giovanni, notaio a San Damiano, appartennero a una famiglia della borghesia impiegatizia della valle Maira (o Macra). I Plochiù (originariamente Plochu) erano di alta borghesia. Il nonno materno, Giovani Battista, politicamente attivo in età franco-napoleonica fu procuratore generale a Torino in età franco-napoleonica e meritò la Legion d’Onore; nel marzo 1821 venne nominato capo politico della provincia di Pinerolo dal governo costituzionale provvisorio.
1843. Muore suo padre, cancelliere al tribunale di Mondovì.
1848-52 Su suggerimento dei fratelli (Melchior, magistrato, e Giuseppe, medico, dimoranti in Cavour), da Torino, ove vive in via d’Angennes (ora via Giolitti) n.5 con altri due fratelli (Luigi, magistrato, e Alessandro, colonnello), per irrobustirlo la madre lo porta a vivere nella casa paterna a San Damiano Macra. Vi compie i primi studi, inclusi rudimenti di latino, alla scuola di don Bernardo Aimar, già amico del padre.
1852-57. Completa gli studi ginnasiali e liceali a Torino. Il 22 luglio 1858 consegue all’Università di Torino il diploma di Magistero.
1858-65 Iscritto alla Facoltà di giurisprudenza si avvale della speciale facoltà di ridurre a un solo anno il triennio terminale e il 14 agosto 1861 si laurea “in leggi” con una tesi su La società coniugale. Intraprende la pratica forense presso lo studio dell’avvocato Luigi Marini. Dall’11 novembre 1862 è “volontario” (senza stipendio) al ministero di Grazia, giustizia e culti. Avvocato dei poveri (come già suo padre), il 25 gennaio 1863 è applicato di 4^ classe, poi presso l’ufficio del procuratore del re. Dal 21 aprile 1865 si trasferisce a Firenze con la madre, a seguito della traslazione della capitale per effetto della convenzione italo-francese del 15 settembre 1864. Il 26 novembre 1865 è applicato di 3^ classe.
1866-67. Per assecondare la madre, malata e insofferente del clima di Firenze, rientra a Torino con il grado di sostituto procuratore del Re presso il tribunale civile (22 novembre) e lo stipendio annuo di 2500 lire. Il 7 agosto 1867 la madre muore.
1869.L’8 gennaio conosce Rosa Sobrero, orfana del padre, Lorenzo, e nipote dell’inventore della nitroglicerina, Ascanio. Perduti i fratelli, Rosa (“Gina”, “Ginotta”) vive con la madre. Nominato segretario capo, a Firenze, della commissione centrale per le imposte dirette su proposta del suo presidente senatore Diodato Pallieri (Moretta, CN, 1813 - 1892), il 31 marzo Giovanni la sposa. Ne avrà Giovenale (morto piccino), Enrichetta (sposa di Mario Chiaraviglio, ingegnere), Lorenzo (morto in incidente di gioco a 6 anni), Luisa (sposa di Giulio Venzi, magistrato), Federico (sposo di Maria Luisa Lago), Maria (Mariuccia, sposa di Dino Chiaraviglio, fratello di Mario), Giuseppe (sposo di Maria Tami: genitori di Antonio, Giovanni e Ugo).
1870-76. Caposezione alle Finanze, è segretario di Quintino Sella (Mosso S. Maria, Novara, 1827 - Biella, 1884), ministro delle Finanze nel governo presieduto da Giovanni Lanza (Casale Monferrato, 1810 - Roma, 1882), tra il 1869 e il 1873. Dopo l’annessione di Roma al regno d’Italia (20 settembre 1870) e il trasferimento del governo, il ministero delle Finanze rimane a Firenze in attesa del Palazzo appositamente edificato nella capitale. Giolitti fa la spola tra Roma e Firenze. Dal 1873 capodivisione alle Finanze, è stretto collaboratore del presidente del Consiglio Marco Minghetti (Bologna, 1818 - Roma, 1886). Spesso appronta o rivede i discorsi parlamentari dei ministri. E’ nominato referendario al consiglio di Stato su designazione del suo primo presidente, senatore Luigi Francesco Des Ambrois de Névache.
1877- 82. Segretario generale della corte dei conti (1877), compie numerose missioni nel Regno. Nel 1879 è regio commissario per riordinare le Opere pie San Paolo di Torino in “istituto bancario di sicuro avvenire”. Nel febbraio 1878, tramite Luigi Breganze, il presidente del Consiglio Agostino Depretis (Mezzana Corti Bottarone, Pavia, 1813 - Stradella, Pavia, 1887) e il ministro di Grazia e Giustizia Pasquale Stanislao Mancini (Castel Baronia, Avellino, 1817 - Napoli, 1888) gli propongono di rientrare effettivo in magistratura quale procuratore generale di Corte di Cassazione. Declina l’offerta.
1882-85. Il 21 agosto 1882 è nominato consigliere di Stato su indicazione di Agostino Depretis. In settembre gli viene proposta la candidatura alla Camera dei deputati nella circoscrizione Cuneo I, comprendente gli ex collegi uninominali di Cuneo, Borgo San Dalmazzo e Dronero. Dopo cauti sondaggi, ottenuto il sostegno dei deputati uscenti Spirito Riberi e Luigi Ranco, da Depretis compensati col laticlavio senatoriale, e Antonio Riberi, e di Nicolò Vineis, direttore dell’influente quotidiano di Cuneo “La Sentinella delle Alpi”, Giolitti accetta e il 15 ottobre pubblica la Lettera agli elettori. In lista con Luigi Roux, direttore del quotidiano torinese “La Gazzetta piemontese” (poi “La Stampa”), e Sebastiano Turbiglio, docente di storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma, il 29 ottobre è il più votato.
Nell’aprile 1883 la Giunta per la verifica delle eleggibilità e compatibilità dei componenti della Camera lo dichiara ineleggibile. Si difende con una ‘memoria’ e la Camera all’unanimità ne conferma l’elezione.
1885. Il 12 marzo propone in Aula la riduzione della tassa sul sale.
1886. Appronta e firma con altri quindici deputati il “manifesto” dell’ “opposizione subalpina” (Domenico Berti, Pietro Delvecchio, Felice Garelli, Achille Plebano, Tommaso Villa...: 28 aprile) contro la “finanza allegra” di Agostino Magliani, membro del governo Depretis. Il 23 maggio è rieletto deputato con Turbiglio e Roux.
Su proposta della giunta comunale di Caraglio (fra i cui membri è Aronne Cassin) viene eletto componente del consiglio provinciale di Cuneo, che lo designa membro della commissione per il bilancio.
1889. Il 9 marzo è nominato ministro del Tesoro nel secondo governo presieduto da Francesco Crispi (Ribera, Agrigento, 1818 - Napoli, 1901), presidente del Consiglio dalla morte di Depretis e alla guida di un ministero che vara importanti riforme (elettività dei sindaci nei Comuni con più di 10.000 abitanti e dei presidenti delle deputazioni provinciali, nuovo codice penale comportante l’abolizione della pena di morte, prima legge sanitaria...).
Il 14 giugno è approvata la sua proposta di legge di ammissione delle cooperative operaie alle gare d’appalto per esecuzione di opere pubbliche d’importo sino a 100.000 lire.
1890. Il 14 settembre, alle forzate dimissioni di Federico Seismit-Doda, un dalmata il cui irredentismo compromette la politica estera del regno, Crispi gli affida l’interim delle Finanze.
Il 23 novembre è rieletto deputato della circoscrizione Cuneo I con Roux e Turbiglio.
Il 9 dicembre si dimette dal governo in contrasto con la richiesta del ministro Gaspare Finali di avviare opere pubbliche senza copertura finanziaria. Da tempo in contrasto con la costosa politica di espansione coloniale voluta da Crispi, Giolitti circoscrive la contesa su un terreno che non comporti dissapori con la Corona.
1891. Il 31 gennaio Crispi è costretto alle dimissioni per un alterco alla Camera sulla politica estera della Destra, da lui tacciata di servilismo verso lo straniero. Nuovo presidente del Consiglio è il marchese palermitano Antonio Starrabba di Rudinì, sostenuto da Giolitti.
1892. Il 16 marzo, a tutela dei redditi più modesti e della piccola proprietà, propone che le imposte siano progressive, anziché proporzionali. Dopo le dimissioni e il reincarico (aprile), alla nuova caduta di Rudinì, anche su suggerimento del ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr il 10 maggio Umberto I lo incarica di formare il governo. Il 15 presenta il suo primo ministero. Dinnanzi all’ostilità dei deputati (169 “si”, 160 “no” e 38 astensioni, da lui valutate come voti contrari), ottiene l’esercizio provvisorio per sei mesi e un decreto “in bianco” di scioglimento della Camera, emanato il 10 ottobre, tanto più che il governo Rudinì aveva reintrodotto i collegi uninominali e occorreva quindi applicare la nuova legge elettorale. Alle votazioni del 6-13 novembre 1892 Giolitti conquista larghissima maggioranza, consolidata con un’infornata di circa 80 senatori, per metà nominati prima delle votazioni. Giolitti è eletto deputato del collegio di Dronero, comprendente i mandamenti di Prazzo e San Damiano, Dronero, Busca e Caraglio (28 comuni).
A dicembre esplode lo scandalo della Banca Romana, sospettata di brogli denunciati alla Camera dal deputato repubblicano e massone Napoleone Colajanni. Viene nominata una commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal presidente della corte dei conti, Finali.
1893. Il 18 gennaio la Commissione riferisce: la Banca Romana ha emesso moneta cartacea per 60 milioni oltre i 35 consentiti e ha tentato la duplicazione di una serie di biglietti per l’ammontare di 40 milioni. L’indomani sono arrestati il suo governatore, Bernardo Tanlongo, e il cassiere, Cesare Lazzaroni. Il 17-18 febbraio Giolitti propone la fondazione della Banca d’Italia con l’accorpamento di quattro banche di emissione: la Nazionale, le due banche toscane e la Romana.
Da fine maggio in Sicilia i “fasci contadini” compiono atti vandalici. Giolitti li affronta senza ricorrere né al loro scioglimento coatto, né a misure eccezionali d’ordine pubblico.
Il 18 ottobre in un discorso a Dronero Giolitti illustra la complessa vicenda delle banche di emissione e della Banca Romana in specie, ripropone la progressività delle imposte e l’elevazione delle tasse sull’eredità, con esclusione delle piccole proprietà. Il 23 novembre il Comitato dei Sette lo deplora per avere sottovalutato, quando era ministro del Tesoro, le risultanze dell’inchiesta Alvisi-Biagini e per aver proposto la nomina di Tanlongo a senatore del regno. Benché non gli venga mosso alcun addebito personale, rassegna le dimissioni da presidente del Consiglio per difendersi senza coinvolgere né il governo né la Corona.
1894. In risposta ad attacchi giornalistici ispirati da Crispi, il 7 giugno pubblica la Lettera agli elettori del collegio di Dronero. Vi ripercorre le vicende bancarie e dichiara di riconoscere solo gli elettori quali “giudici della sua condotta politica”. Ormai nel mirino della magistratura, manovrata dal ministro Vincenzo Calenda di Tavani su mandato di Crispi, l’11 dicembre consegna al presidente della Camera dei deputati un plico di documenti. Esaminati seduta stante da una commissione rappresentante di tutte le tendenze, incluso il radicale Felice Cavallotti, essi mettono a nudo l’immoralità pubblica e privata di Crispi e della sua cerchia. Crispi risponde prorogando i lavori della Camera. Temendo l’arresto per sottrazione di documenti, a dicembre Giolitti si reca a Charlottenburg (Berlino) in visita alla figlia Enrichetta e al genero, Mario Chiaraviglio, in Germania per lavoro.
1895. Raggiunto a fine gennaio da mandato di comparizione senza capo d’imputazione, rientra in Italia. Dopo lunghe schermaglie giudiziarie la Corte di Cassazione si dichiara incompetente un’imputazione di pertinenza della Camera o del Senato costituito in Alta Corte. Il 26 maggio Giolitti è rieletto deputato del collegio di Dronero con 2684 consensi su 2720 votanti. La Camera riprende i lavori il 10 giugno, ma dopo il voto di fiducia al governo viene nuovamente prorogata a novembre. Alla ripresa l’Aula delibera l’archiviazione del “caso”, senza un giudizio di merito.
1896. Con le dimissioni di Crispi, travolto dalla sconfitta di Abba Garima (Adua) del 1° marzo, Umberto I nomina presidente del Consiglio Rudinì, sostenuto da Giolitti.
1897. In vista delle nuove elezioni (21 marzo 1897), nel discorso di Caraglio (7 marzo) chiede che la magistratura inquirente sia resa indipendente dal potere politico e separata dalla giudicante. E’ rieletto deputato con 1839 suffragi su 1995 votanti.
1898. In visita a Torino per l’Esposizione nazionale nel cinquantenario dello Statuto, dopo anni di silenzio Umberto I gli si mostra cordiale. Alla caduta di Rudinì, responsabile della durissima repressione militare dell’insorgenza popolare contro il rincaro delle farine (maggio), Giolitti favorisce l’avvento alla presidenza del generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra nel suo primo governo.
1899. In opposizione a Pelloux, che emana un decreto limitativo della libertà di stampa e di dibattito in Aula, il 1° luglio partecipa in Roma a una riunione di liberaldemocratici, in molta parte massoni, decisi a rivendicare le libertà statutarie. Il 29 ottobre, su impulso di Urbano Rattazzi, enuncia a Busca l’ampio programma di governo che ne fa il più autorevole capo dell’opposizione costituzionale.
1900. Tenta invano un’intesa con Pelloux per frenare l’ostruzionismo dell’Estrema, da lui disapprovato. Il 3 giugno è rieletto deputato con 1748 suffragi su 1860 votanti. A Pelloux subentra l’ottuagenario Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Il 29 luglio Umberto I è assassinato a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Gli succede il figlio, Vittorio Emanuele III (Napoli, 1869 - Alessandria d’Egitto, 1947).
1901. Il 14 febbraio, alle dimissioni di Saracco, il Re incarica Zanardelli di formare il nuovo governo, che tra i ministri chiave ha Giolitti all’Interno, Leone Wollemborg alle Finanze e Nunzio Nasi all’Istruzione. Il 21 giugno Giolitti propugna alla Camera la liceità degli scioperi per aumenti salariali e si dichiara contrario a quelli “politici” e nei pubblici servizi.
1902 Legge per la tutela del lavoro minorile e femminile. In gennaio-febbraio Giolitti fronteggia drasticamente e sconfigge lo sciopero dei ferrovieri.
1903. In disaccordo con la proposta governativa d’introduzione del divorzio, che inasprisce l’opposizione dei cattolici nel Paese, il 21 giugno Giolitti si dimette. Zanardelli assume l‘interim dell’Interno, ma, malato e stanco, a fine ottobre rassegna le dimissioni. Il Re incarica Giolitti di formare il nuovo governo. Pronto a farsi da parte in caso d’insuccesso, questi mira invano a includervi i radicali e a ottenere il sostegno dei socialisti. I ministri più rappresentativi sono il cattolico liberale Tommaso Tittoni agli Esteri, Luigi Luzzatti al Tesoro, Francesco Tedesco ai Lavori Pubblici. Investito da una campagna scandalistica mirante a screditare il presidente, per stroncarla sul nascere il 9 novembre il ministro delle Finanze, Pietro Rosano, si uccide.
1904. Raggiunto il pareggio del bilancio d’esercizio, Giolitti vara grandi riforme. In coincidenza con i festeggiamenti per la nascita del principe ereditario Umberto , a Racconigi (15 settembre), la camera del lavoro di Milano indice lo sciopero generale “espropriatore”, col sostegno dei socialisti. Giolitti è nominato Cavaliere del Supremo Ordine della Santissima Annunziata, comportante il rango di “cugino del Re” (20 settembre). Lasciato che lo sciopero si esaurisca da sé, ottiene lo scioglimento della Camera e nuove elezioni (6 novembre). Successo del governo, ingresso alla Camera di tre cattolici deputati e flessione di socialisti e repubblicani.
1905. Avviata la statizzazione della rete ferroviaria, Giolitti si dimette per gravi motivi di salute. Gli subentrano il suo fido Alessandro (Sandrino) Fortis (due governi tra marzo e dicembre) e il conservatore e avversario Sidney Sonnino (dicembre 1905- maggio 1906).
Il 13 agosto 1905 Giolitti è eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo, di cui è membro dal 1886 per il mandamento di Caraglio.
1906. Il Re incarica Giolitti di formare il suo terzo governo, poi detto “lungo” (29 maggio 1906 - 11 dicembre 1909). Tentato invano il coinvolgimento dei socialisti, tiene per sé l’Interno e affida gli Esteri a Tittoni, il Tesoro ad Angelo Majorana, l’Istruzione a Guido Fusinato; vara leggi speciali a favore delle regioni meridionali e la riduzione della rendita dei titoli del debito pubblico dal 5% al 3,5%. La cartamoneta fa aggio sull’oro.
Nascono la confederazione generale italiana del lavoratori (CGIL) e la Lega degli industriali.
1907-1908. Leggi a favore del pubblico impiego, obbligatorietà del riposo settimanale e divieto di lavoro notturno femminile. Conferma dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare su richiesta delle famiglie (febbraio 1908). Primo congresso delle donne italiane (1908) e varo dell’Istituto internazionale per l’agricoltura (Roma), voluto da Vittorio Emanuele III.
1909. Rinnovo della Camera (7 marzo). I cattolici deputati crescono a 21; aumentano anche radicali e socialisti. Legge di tutela del patrimonio artistico nazionale. Gaetano Salvemini, sconfitto nel collegio di Molfetta, denuncia brogli elettorali nel libello Il ministro della mala vita.
Il 2 dicembre, molto affaticato, Golitti si dimette. Gli subentra Sonnino, per soli cento giorni.
1910. Giolitti favorisce la formazione del governo presieduto da Luigi Luzzatti (31 marzo 1910 - 30 marzo 1911), con Antonino di San Giuliano agli Esteri, Luigi Facta alle Finanze, i radicali Luigi Credaro all’Istruzione ed Ettore Sacchi ai Lavori Pubblici, il comandante generale dei carabinieri Paolo Spingardi alla Guerra e l’albese Teobaldo Calissano, suo fiduciario, sottosegretario all’Interno.
1911. Dopo un incontro segreto con il Re a Racconigi (settembre 1910), Giolitti provoca le dimissioni di Luzzatti proponendo il suffragio universale maschile e bocciando il progetto di rendere parzialmente elettivo il Senato, che rimane di nomina regia e vitalizia. Incaricato di formare il suo quarto governo (“grande ministero”, 30 marzo-21 marzo1914), si vale di San Giuliano agli Esteri, Camillo Finocchiaro Aprile alla Giustizia, Francesco Saverio Nitti all’Agricoltura, Calissano alle Poste. Conferma Spingardi, Credaro e Sacchi. Il 4 giugno, nell’ambito del Cinquantenario del regno (festeggiato il 27 marzo), Giolitti celebra lo scoprimento del Monumento di Vittorio Emanuele II all’Altare della Patria (o Vittoriano), presente il Re.
Il 29 settembre il governo dichiara guerra all’Impero turco-ottomano e ordina lo sbarco delle truppe italiane a Tripoli. Il 5 novembre proclama la sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica (Libia).
1912. Liberazione dal dominio turco di Rodi e del Dodecaneso, nel Mar Egeo.
Nuova legge elettorale (giugno): diritto di voto ai ventunenni alfabeti, a quanti abbiano prestato servizio militare e ai trentenni, anche se analfabeti o militesenti. Al congresso di Reggio Emilia i socialriformisti (Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angelo Cabrini...) vengono espulsi dal Partito socialista italiano, dominato dai massimalisti guidati da Benito Mussolini e Costantino Lazzari, fautori della “rivoluzione”.
Pace di Losanna con l’Impero turco (18 ottobre): sovranità dell’Italia sulla Libia e possesso di Rodi e del Dodecaneso sino alla liquidazione delle sacche di resistenza turca in Libia.
1913. Fallito ogni tentativo d’intesa con i socialisti, accordi tra i candidati liberali e l’Unione elettorale cattolica presieduta da Ottorino Gentiloni. Alle elezioni (26 ottobre) 226 ministeriali (anche massoni notori) prevalgono col sostegno dei cattolici. Vengono eletti 70 radicali, 80 socialisti (divisi in tre gruppi), 20 cattolici e 17 repubblicani. Tumultuosa inaugurazione della sessione parlamentare con infuocati discorsi antigiolittiani dei socialisti Arturo Labriola e Orazio Raimondo e del nazionalista Luigi Federzoni.
1914. In risposta al disimpegno dei radicali, Giolitti rassegna le dimissioni. Antonio Salandra, esponente della destra liberale forma un governo comprendente San Giuliano agli Esteri (che accetta su pressione di Giolitti), Ferdinando Martini alle Colonie, Edoardo Daneo all’Istruzione, Giannetto Cavasola all’Agricoltura e il generale Domenico Grandi alla Guerra (21 marzo). Dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo (28 giugno) e mentre cresce la tensione tra gl’Imperi Centrali (Austria-Ungheria e Germania) e le potenze dell’Intesa (Russia, Francia e Gran Bretagna), arriva pe rla prima volta a Londra in visita privata. Vi è raggiunto dall’annunzio dell’ultimatum della Germania all’Impero russo e alla Francia, di concerto con quello dell’Impero austro-ungarico alla Serbia. Si dichiara favorevole alla neutralità dell’Italia, giacché l’alleanza con Berlino e Vienna del 1882, più volte rinnovata, è “difensiva” ed esige la consultazione prima della dichiarazione di guerra. Anche Salandra e San Giuliano optano per la neutralità. Alla morte di San Giuliano, Salandra vara un nuovo governo (5 novembre) con Sonnino agli Esteri, Pasquale Grippo all’Istruzione e Zupelli alla Guerra, e avvia contatti con Londra e Parigi per un capovolgimento dell’alleanza.
1915. Il Paese è diviso tra interventisti (schierati con la Triplice intesa) e neutralisti, guidati da Giolitti, favorevole a trattative con Vienna per ottenerne subito compensi territoriali nelle terre irredente (Trentino e Venezia Giulia). Il 26 aprile, all’insaputa del Parlamento e del governo stesso, Salandra impegna l’Italia a intervenire in guerra entro un mese, anche contro la Germania e senza possibilità di armistizi separati (Patto di Londra). Il 3 maggio ilgoverno dichiara di considerare nulla la Triplice dall’indomani se Vienna non si impegna a indicare quali compensi riconosce all’Italia per i suoi probabili ingrandimenti nei Balcani.
Il Re approva il patto di Londra. Per scongiurare l’ingresso in una guerra che prevede lunga e devastante, Giolitti si reca a Roma e viene ricevuto dal sovrano. Salandra si dimette. Giolitti rifiuta di formare il governo, proprio perché notoriamente contrario all’intervento, e propone quali presidenti Giuseppe Marcora o Paolo Carcano. Vittorio Emanuele III reincarica Salandra. Lautamente finanziato dagli interventisti, fra i quali il “Corriere della Sera” e l’ “Idea nazionale”, Gabriele d’Annunzio incita la folla a eliminare Giolitti col “fuoco purificatore”. Tentato assalto all’abitazione di Giolitti in via Cavour 71, a Roma. Il questore comunica di non poterne garantire l’incolumità. Lascia la capitale per Cavour. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa, ma solo contro l’impero austro-ungarico. Dichiarerà guerra alla Germania il 25 agosto 1916. Giolitti e i suoi più autorevoli amici, tra i quali il senatore Antonio Cefaly, massone, ritengono che il governo ha compiuto un “colpo di Stato” ma né in pubblico né in privato lo Statista usa la formula “colpo di governo” per non mettere in discussione la condotta del Re, capo delle Forze Armate e sovrano della politica estera.
1916-18. Da Cavour, anche tramite il direttore e proprietario della “Stampa”, senatore Alfredo Frassati, e suo genero, Mario Chiaraviglio, deputato dal 1911, segue con angoscia crescente l’andamento della guerra, sempre più esoso di vite e risorse. Il 13 agosto 1917, inaugurando la seduta del Consiglio provinciale di Cuneo, chiede il trasferimento dal re al Parlamento dell’approvazione dei trattati internazionali, cioè della dichiarazione di guerra. Alle dimissioni di Salandra, si susseguono presidenti del consiglio Paolo Boselli e, dopo la rotta di Caporetto (24 ottobre 1917), Vittorio Emanuele Orlando.
1919. Giolitti è nettamente contrario all’occupazione di Fiume da parte di Gabriele d’Annunzio (settembre) e alla proclamazione della Reggenza del Carnaro. Alle dimissioni di Orlando e Sonnino (principale responsabile degli errori del governo italiano in politica estera), si susseguono due governi presieduti da Nitti. In vista delle elezioni del 16 novembre, il 12 ottobre Giolitti pronunzia a Dronero un discorso imperniato su riforma dell’articolo 5 dello Statuto (trasferimento al Parlamento del potere di dichiarare guerra), restaurazione della finanza pubblica, nominatività dei titoli azionari di qualsiasi genere, riforma scolastica. E’ bollato dal “Corriere della Sera” come “bolscevico dell’Annunziata”. Il Vaticano è contrario alla nominatività dei titoli che ne farebbe affiorare la ricchezza finanziaria.
La nuova legge elettorale (riparto proporzionale dei seggi, distribuiti in collegi provinciali) determina il successo dei socialisti (156 seggi) e del cattolico Partito popolare italiano (100 seggi), fondato a gennaio su impulso di don Luigi Sturzo, suo segretario, la frantumazione di costituzionali, democratici e riformisti e la scomparsa dei radicali. Insuccesso elettorale dei “fasci di combattimento” fondati a Milano il 23 marzo 1919 da Benito Mussolini, già socialmassimalista e interventista.
Nella sua stessa provincia Giolitti subisce una secca sconfitta. Contro 4 deputati socialisti, 4 popolari e un “agrario” (eletto anche con voti fascisti sollecitati da Tancredi Galimberti), ottiene solo 3 seggi: per sé, Marcello Soleri e Camillo Peano.
1920. Alle dimissioni di Nitti, incapace di risolvere la crisi di Fiume, il re incarica Giolitti. Tentato invano di coinvolgere i socialisti moderati, forma il suo quinto governo con Carlo Sforza agli Esteri, Ivanoe Bonomi alla Guerra, il popolare Filippo Meda al Tesoro, Benedetto Croce all’Istruzione, Peano ai Lavori Pubblici, l’ex sindacalista e massone Arturo Labriola al Lavoro.
In settembre la CGIL d’intesa con i socialmassimalisti decide l’occupazione delle fabbriche per “fare come in Russia”: rivoluzione, eliminazione della monarchia e “bagno di sangue” della borghesia. Come nel 1904, Giolitti attende che quella “rivoluzione all’italiana”, priva di sbocchi politici, si esaurisca da sé. In dicembre costringe d’Annunzio manu militari ad allontanarsi da Fiume, costituita in corpus separatum con il trattato di Rapallo (ottobre) che regola i rapporti tra Italia e Jugoslavia.
Abolisce il prezzo politico del pane e avvia la restaurazione della finanza pubblica, ma non ottiene libertà di riordinare il pubblico impiego e ridurne l’onere per Stato e amministrazioni locali, nel cui rinnovo Giolitti promuove alleanze tra moderati e fascisti.
1921. Per imbrigliare gli opposti estremismi, a legge elettorale immutata, indice nuove elezioni. Il 10 maggio muore sua moglie. Il 15 è rieletto deputato nel Cuneese con Soleri, Peano ed Egidio Fazio. Ripropone invano la riforma dell’art. 5 dello Statuto e la nominatività di tutti i titoli di credito.
La distribuzione proporzionale dei seggi genera alla Camera quattordici gruppi parlamentari e rapporti di forza pressoché immutati fra liberaldemocratici, popolari e socialisti. Questi ultimi registrano una flessione bilanciata dai seggi del Partito comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale, fondato a Livorno in gennaio. Il Partito Nazionale Fascista ottiene 35 deputati (quasi tutti eletti in “blocchi nazionali” comprendenti costituzionali, democratici, fascisti); i nazionalisti 11.Privo di una maggioranza sicura, il 27 giugno Giolitti si dimette. Al termine di convulse consultazioni, il 4 luglio gli subentra Bonomi, alle cui dimissioni (gennaio 1922), dopo la crisi più lunga dal 1861, il re incarica Luigi Facta, che forma un governo comprendente i popolari, prima contrari al governo di unione nazionale (liberali, socialisti, popolari) proposto da Giolitti.
1922. Dimissionario a fine luglio, dopo un secondo “veto” di don Luigi Sturzo al ritorno di Giolitti, Facta forma il suo secondo ministero con Paolino Taddei all’Interno, Carlo Schanzer agli Esteri, Giovanni Amendola alle Colonie, Soleri alla Guerra, Giulio Alessio alla Giustizia. Il 23 ottobre Giolitti dichiara che occorre responsabilizzare i fascisti, coinvolgendoli nel governo. Ove non accettassero, i loro reati verrebbero perseguiti a termini di legge. Su sollecitazione del re, il 28 ottobre Facta lo invita a Roma, sconsigliandogli però di mettersi in viaggio.
In assenza di valide alternative, il 30 ottobre il Re incarica Mussolini di formare il governo. Il nuovo ministero (nominato il 31 ottobre) comprende tre fascisti, liberali, popolari, demosociali, nazionalisti e ministri di garanzia (Armando Diaz e Paolo Thaon di Revel). Il filosofo Giovanni Gentile assume l’Istruzione.
Giolitti dichiara che “il parlamento ha il governo che si merita”. Pubblica dall’editore Treves le Memorie della mia vita con introduzione di Olindo Malagodi.
1923. Giolitti presiede la Commissione per l’esame della legge elettorale, che sostituisce la “maledetta proporzionale” con il maggioritario rafforzato (due terzi dei seggi alla lista che superi il 25% dei consensi) e ne propugna l’approvazione.
1924. Nelle elezioni del 6 aprile la lista nazionale incardinata sul Partito nazionale fascista e comprendente liberali, democratici, cattolici ottiene il 66% dei consensi e due terzi dei seggi, 227 dei quali a deputati fascisti di talora recente iscrizione (40% del totale). Giolitti guida in Piemonte una lista democratica che ottiene tre seggi: per sé, Soleri ed Egidio Fazio.
In risposta all’assassinio (preterintenzionale) del socialista Giacomo Matteotti a opera di manutengoli del PNF, coperti da alte cariche della Sicurezza, i deputati socialisti, popolari, repubblicani e seguaci del democratico Giovanni Amendola lasciano la Camera (“Aventino”). Come i deputati del Partito comunista d’Italia, Giolitti continua invece l’opposizione in Aula. Il 15 novembre si pronunzia contro la limitazione della libertà di stampa giudicandola in contrasto con lo Statuto.
1925. Il 16 gennaio firma con gli ex presidenti Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra un ordine del giorno contro il governo di Mussolini, che il 3 gennaio ha annunciato la svolta autoritaria.
Il 21 dicembre, posto dai consiglieri provinciali di Cuneo dinnanzi alla scelta fra iscrizione al PNF e presidenza del consesso, si dimette dalla carica e, “per elementare senso di dignità”, da rappresentante del mandamento di San Damiano e Prazzo, in Valle Maira, ove era stato eletto nel 1920.
1926-27. Compie viaggi all’estero e si dedica a letture di storia e politica. Constata il fallimento dei tentativi dei liberali di organizzarsi e di contrastare il governo, che ormai conta sul sostegno della Chiesa cattolica, del mondo imprenditoriale e finanziario e su ampi riconoscimenti esteri (compresi Gran Bretagna, USA e URSS). Ritiene che i valori costitutivi della Terza Italia (libertà politica, nessuna interferenza delle “chiese” nella vita pubblica, riforme per il progressi civile) torneranno ad affermarsi.
1928. Il 16 marzo vota contro la legge che attribuisce al Gran consiglio del fascismo (all’epoca ancora organo interno del PNF) il potere di stilare la lista dei 400 componenti della futura Camera, da presentare agli elettori, chiamati ad approvarla o rifiutarla in blocco, e denuncia il definitivo strappo fra il governo e lo Statuto.
Il 17 luglio muore a Cavour e vi viene sepolto.
1962. Pubblicazione di Quarant’anni di politica italiana. Dalle Carte di Giovanni Giolitti (Feltrinelli), che riapre gli studi sull’età giolittiana.
1978. Il presidente della repubblica, Sandro Pertini, scopre il busto in bronzo di Giolitti nel salone del consiglio provinciale di Cuneo, nel 1998 intitolato allo statista.
1989. Il 9 marzo, a Casa Plochiù, in Cavour, auspice il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, viene scoperta la lapide che ne ricorda il centenario dell’ingresso al governo.
2003. Il 18 settembre il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, assiste nella “Sala Giolitti” della Provincia di Cuneo alla rievocazione dello “statista della Nuova Italia”.
2007-2010. La Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo pubblica Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio su progetto del Centro europeo “Giovanni Giolitti” per lo studio dello Stato (Dronero) e dell’Archivio Centrale dello Stato.
Aldo A. Mola
CRONOLOGIA SINTETICA
DELLA VITA DI GIOVANNI GIOLITTI
(di Aldo A. Mola)